a cura di Vanna Pina Delogu
Or è, all'incirca, tre quarti di secolo
Interessanti immagini sulla confraternita di Santa Croce emergono da un divertente articolo scritto, alla fine degli anni Sessanta del secolo scorso, dall’avvocato Ugo Puggioni, personaggio molto apprezzato in paese per la battuta brillante, per lo spiccato senso dell’humor che lo spingeva creare da sorsense, le più divertenti barzellette sugli stessi Sussinchi; amante della cultura locale al punto da rivolgersi in puro dialetto ai suoi elettori durante i comizi, quando fu candidato al Consiglio provinciale, usando in italiano solo la frase iniziale: “Popolo dalle larghe falde”, in riferimento al tipo di sombrero utilizzato dalla maggior parte della popolazione maschile.
Il pezzo dal titolo “Or è, all’incirca, tre quarti di secolo” venne inserito nel libro "Sorso ed i Sorsensi", pubblicato nel 1972 e curato dallo storico Nino Gaetano Madau Diaz , il quale non poté fare a meno di omaggiare in tal modo il suo caro amico e compaesano, l’avvocato Puggioni, all’epoca ottantenne, che esemplificava magnificamente, col suo carattere, la vera anima locale.
Il quadro della vita paesana che tali gustosissime immagini offrono, caratterizzandosi per l’autoironia, è quello dei Sussinchi che «dopo essersi battuti il petto» durante la predica del Prubanu (pievano, parroco) nel Venerdì santo, e mentre il piccolo Ugo, (l’avvocato da piccolo, vestito da angelo), tende il sacro lino al Giudeo per afferrare la corona del Cristo, “si divertono a portare un bambino ancora in gonnellino e mutandine di pizzo nel peccaminoso Caffè dell’Aquila ed a farlo danzare al fianco di una non meno peccaminosa danzatrice del più basso conio. Questa indifferenza nel passare dal sacro al profano è ancora attuale!”.
Dal simpatico racconto emergono comunque preziose informazioni legate ai riti della Settimana Santa, così come venivano svolti in quell’epoca, che testimoniano l’impegno del clero locale e dei confratelli di Santa Croce per la buona riuscita della sacra rappresentazione del "Discendimento", nonché il fervore religioso dell’intera popolazione sorsense che partecipava alle funzioni con sincera commozione .
L’avvocato Puggioni rievocava così alcuni episodi della sua infanzia, ossia gli anni compresi tra la fine dell’Ottocento e i primi del Novecento, rivedendosi “Angelo” attraverso il velo dei ricordi, seduto, attento e composto accanto al grande priore di Santa Croce. Il rituale del "Discendimento", allora come oggi, si compiva nella parrocchia di San Pantaleo, con la chiesa immersa nella penombra poiché il grande portone veniva chiuso e i finestroni in alto velati in segno di lutto.
“Sulla folla annichilita il Pievano, lu Prubanu per eccellenza, Agostino Santoni, tutto proteso dal pulpito, rosso e trafelato, regista ante litteram, dirigeva in dialetto sorsese la sacra rappresentazione”.
Emerge dal racconto la necessità, ma anche il desiderio da parte di coloro che rivestivano un ruolo pubblico (il parroco e lo stesso avvocato durante la sua candidatura, come accennato) di usare il dialetto locale per attirare meglio l’attenzione dell’uditorio e arrivare dritti al cuore del popolo. Si pensi al moderno atteggiamento dimostrato da quel sacerdote che, in un periodo in cui ancora nella Chiesa dominava il latino, aveva deciso di usare, in particolari occasioni, il linguaggio praticato quotidianamente dalle persone presenti alla predica, attraverso il quale era certo di trovare le parole più appropriate per far rivivere la tragedia della morte di Cristo!
E così, attraverso i ricordi dell’avvocato, sembra quasi di assistere al momento in cui il pievano, a gran voce, ordina ai due Giudei, Nicodemo e Giuseppe d’Arimatea, di appoggiare le lunghe scale sul Calvario, per salirvi e lentamente procedere alla liberazione del Cristo dalla croce:
“I due giudei vi si erano arrampicati e di lassù dominavano nel silenzio la folla, quando con voce rotta dai singhiozzi, il terribile Pievano (terribile agli occhi di un bambino vestito da angelo) allungando il braccio con l’indice teso verso di me implorava, supplicava, scongiurava perché io, Angelo del Padre, volassi verso il Figlio. Era il momento: toccava a me”.
La folla seguiva la rappresentazione con timoroso e rispettoso silenzio: “Il grande Priore (grande forse lo era di statura o forse perché tutti gli adulti lo sono agli occhi dei bambini) mi aveva già messo ritto sul bancone ed ecco, deciso, impugnava il mio sedere, mi sollevava a braccio teso accanto alla vittima (Cristo) issandomi sempre più verso Giuseppe D’Arimatea. Una stretta più forte da sotto mi avvertiva che dovevo sollevare le braccia e con le mani tendere il sacro lino al Giudeo perché vi adagiasse la corona. E dopo aver deposto la corona, sempre col sedere impugnato, l’avevo posta in capo alla Madre e i due Giudei, mostrato alla Sinagoga sorsense il corpo piagato, il grande portale veniva spalancato e la luce rossa del vespero invadeva il Tempio cacciando l’ombra sotto la grande cupola e le alte arcate”.
Finita la funzione i confratelli si riversavano nel piazzale davanti alla chiesa con scale, lance, croci, chiodi e martelli mentre avanzava la lettiga tutta adornata di fiori, contenente il Cristo morto:
“Tenendosi vicino al Tenore, alla Voce ed al Contralto e solenne come pietra miliare romana, mastro Nicolino Albertini il Basso, aspettava immobile sul limitare che la lettiga si avvicinasse e quindi incamminandosi intonava con voce possente da sotto le righe, Amplius lava me. La sua voce vibrante come canna d’organo al pedale invadeva tutta la piazza e faceva vacillare le luci intorno alla lettiga”.
Passare repentinamente dal sacro al profano, “da Gerusalemme a Sodoma”, non era tanto difficile, neppure in quel tempo, e l’elegante Caffè dell’Aquila, in un’epoca densa di inquietudini e di profondi cambiamenti politici e culturali, esercitava un richiamo irresistibile “per i Satanassi, come il terribile Pievano, parafrasando Pio IX, indicava i liberali, i massoni, i liberi pensatori, i socialisti e quanti altri (sulle orme del socialista avv. Antonio Catta) volevano il Popolo Sovrano (…) .
Caratterizzato stilisticamente dalle pregevoli e colorate decorazioni degli arredi e dall’eleganza floreale del Liberty, del tutto simile ai raffinati ed affollati cafè della vivace Sassari di fine Ottocento, il famoso Caffè dell’Aquila era il piacevole sfondo di tanti incontri fra accesi sostenitori del nascente socialismo e movimento sindacale. Il vento dell’ottimismo e della speranza alitava tenuamente sulla martoriata Sardegna nel periodo a cavallo tra Otto e Novecento, alimentato anche dalle esperienze artistiche che la Belle Époque andava diffondendo nelle città europee, e portatore di un’idea di cambiamento, di pace e di benessere che il nuovo secolo, il Novecento, sembrava capace di donare.
“In quello scorcio di secolo in Sardegna, all’infuori di pochissime città, nessun altro centro vantava un caffè come quello, ed io lo ricordo ancora con i suoi divani di velluto rosso ed i tavolini di marmo. In questo Caffè, chissà mai per quali travagliatissime vicissitudini, era approdato, meglio, naufragato un residuo di compagni di comici, veri guitti, che in un vasto locale retrostante, su un basso improvvisato palcoscenico recitava farse, monologhi ed una giovinetta, sollevando gambe e gonne cantava”.
L’avvocato Puggioni venne, in seguito, a conoscenza dell’esilarante episodio dai discorsi di due stimati amici di famiglia: il medico Pietro Marogna, magnifico Rettore dell’Ateneo Turritano negli anni Trenta, “ex garibaldino di Domokos, sanguigno e rosso di pelo come un Vichingo”, ed un giovanissimo magistrato, di cui ora è difficile risalire al nome, “già allora con le tempie bianche, alto, magro”, che l’avvocato avrebbe successivamente incontrato nelle aule dei tribunali nelle vesti di Procuratore Generale del Re. Dal racconto dei due amici, il piccolo Ugo risalta in tutta la sua vivacità infantile:
“Tanto feci e tanto strepitai che un tardo pomeriggio, sottratto con artifizi e raggiri a mia madre, tenuto per mano da essi, entravo glorioso e trionfante nel caffè e seduto composto accanto a loro, guardavo estasiato in mezzo a un pubblico che fumava, giocava accanite mariglie, gridava, urlava, faceva versacci e nitriva.
Ma doveva essere la giovinetta biondissima a perdermi perché danzando e cantando di una sua camicia profumata al “pasgiulì” mi sorrideva e tendeva a me le braccia in seno, e quando anche io tesi a lei le mie, essa me le afferrò e mi tirò sù.
Tenendomi per mano, con lei e come lei cantai, con lei e come lei sollevai la mia gonnellina e come lei mostrai le mie mutandine fiorite di pizzo. Un uragano di applausi.
Il giorno dopo il terribile Pievano mi esorcizzò ma io non fui più Angelo”.
Fonti:
Puggioni Ugo, "Or è all’incirca tre quarti di secolo", in AA. VV., AA. VV., Sorso ed i Sorsensi, a cura di Nino Gaetano Madau Diaz, Editrice Sarda Fossataro, Cagliari, 1972.
Madau Diaz Nino Gaetano, "Sorso ed i Sorsensi", editrice Sarda Fossataro, Cagliari, 1972, Il Madau Diaz, nativo di Sorso, è inoltre l’autore de “Il codice degli statuti del libero Comune di Sassari”, prima traduzione in lingua italiana dal sardo logudorese, Editrice Sarda F.lli Fossataro, Cagliari 1969. Tale opera venne redatta dallo storico sorsense quando era stato chiamato a ricoprire l’incarico di Segretario Comunale nel Comune di Sassari.
Delogu Vanna Pina," Il Popolo Sovrano in Romangia e l’era del socialista Antonio Catta. Impegno politico e sindacale in Sardegna tra Ottocento e Novecento", Phasar edizioni, febbraio 2017.