A cura di Gian Paolo Ortu
L’Acqua della Billellera
Alla fontana di Sorso sono legate diverse leggende: la più celebre riguarda l’elleboro, pianta velenosa un tempo utilizzata nella cura dell’epilessia e della pazzia; nella tradizione locale le proprietà terapeutiche della pianta passarono all’acqua, ma rovesciate, così che, bevendola i Sussinchi ammattivano anziché rinsavire.
Esistono tradizioni e storie che si collegano all’acqua della Billellera. Fino agli anni Quaranta del secolo scorso, quando nelle case non era ancora in uso l’acqua corrente, le ragazze dei ceti meno abbienti si recavano alla fontana per attingervi l’acqua potabile necessaria agli usi domestici.
L'acqua veniva trasportata con un secchio cilindrico di legno, rastremato verso l'alto (lu caddinu), tenuto in equilibrio sulla testa grazie all'ausilio di un panno arrotolato ad anello (lu tiddìri) sul quale veniva poggiato il secchio. All'interno, vi si trovava un mestolo (l’ùppu), una ciotola di sughero nella quale era infilato un lungo e sottile manico di legno. Al ritorno dalla fonte, in cima alla gradonata, le ragazze trovavano ad attenderle i loro pretendenti che, dopo averle fermate, chiedevano loro: “A mi dai a bì? (Mi dai da bere?)”.
Era questo il modo con cui il giovane, galantemente, chiedeva alla ragazza se gradiva essere corteggiata. Se ella si fermava e gli porgeva il mestolo colmo d’acqua, significava che era consenziente e che i genitori del giovane potevano chiederne la mano ai suoi; viceversa, se non lo era, proseguiva per la sua strada senza fermarsi. In entrambi i casi tutto avveniva senza che la ragazza proferisse una sola parola.
Per quanto riguarda i ceti più ricchi, l'approvviginamento idrico per il fabbisogno familiare era assicurato dalla presenza di pozzi e cisterne nelle loro case oppure in campagna. In quest'ultimo caso, l’acqua veniva trasportata dentro grandi brocche di terracotta con i barròcci, cioè i carretti trainati dal cavallo.